Quando Quéi de la bòla, così si chiamavano i vecchi malavitosi veronesi, volevano celare il loro dire alla gente comune o a Quéi de la giùsta, le forze dell'ordine e i giudici, usavano un gergo caratteristico, l'Amaro, un linguaggio criptico con lontane radici nell'antico Furbesco, la parlata oscura dei malandrini e dei vagabondi medievali. Un linguaggio che nel corso degli anni si era arricchito di parole trasformate nella forma e mutate nel significato, prese a volte da altri dialetti o da altre lingue come il tedesco, il francese, l'ebraico, il romi. Una lingua difficilmente codificabile, sfuggente, misteriosa per chi a quei mondi criminali non apparteneva, nemica di ogni regola come nemici delle regole erano Quéi de la bòla, le vecchie canaglie che la conoscevano e la parlavano.